Disagio giovanile, le riflessioni del Direttore del Dipartimento assistenziale integrato salute mentale dipendeze patologiche (DAI-SMDP)
Un'analisi, nell'attuale contesto sociale, per capire e rispondere ai bisogni dei giovani
09/07/2014 - Negli ultimi mesi diversi episodi riguardanti adolescenti e giovani adulti hanno richiamato l’attenzione dei mass media e creato preoccupazione nell’opinione pubblica. Desidero esporre alcune considerazioni di carattere generale con l’auspicio di contribuire ad una riflessione comune. In primo luogo, credo occorra un’analisi approfondita e serena, scevra da generalizzazioni per le quali i fenomeni che riguardano alcuni ragazzi diventano di “tutti i giovani” e pregiudizi in base ai quali, ad esempio, “una volta tutto andava meglio”.
Ogni evento è diverso e presenta delle proprie specificità ma non entrerò nei dettagli. Credo invece che dobbiamo cercare di comprendere in quale contesto sociale e familiare s’inscrivono i diversi fenomeni: da un lato la società (“liquida”) e dall’altro le tante tipologie di famiglie. Le manifestazioni che maggiormente preoccupano sono connesse all’aggressività e all’antisocialità. Ovviamente è meno evidente la sofferenza quando questa riguarda il corpo (si pensi ai disturbi dell’alimentazione), le relazioni (il ritiro, la chiusura) fino ai propositi, vissuti e agiti auto lesivi/autosoppressivi (incidenti e suicidi sono tra le prime cause di morte in adolescenza).
Bisognerebbe riflettere sulla questione dell’aggressività nella sua espressione fisiologica (del suo controllo e della sua necessità per la costruzione della personalità e il funzionamento mentale) e nella sua qualità disfunzionale fino a quella espressione di patologia. Questo è essenziale per un’adeguata gestione dell’aggressività e apre una riflessione anche sul concetto di ordine e sicurezza nei contesti familiari, scolastici e sociali.
Un rapporto complesso: da un lato le famiglie a volte luogo della violenza subita dai minori e delle donne (il dramma dei femminicidi, ogni anno in Italia sono 180 circa) in genere ad opera dei maschi; dall’altro i giovani autori di violenza da atti banali, a volte simbolici, singoli o per lo più gruppali, fino ai fatti gravissimi. Una violenza che spesso colpisce per la carenza di motivazione, per una certa gratuità, una sorta di banalizzazione non solo del male, ma della vita e della persona dell’altro. Un’incapacità ad accettare e porsi dei limiti ma anche la sensazione di “non avere nulla da perdere”.
Succede abbastanza spesso che le famiglie siano in difficoltà sia nella loro capacità di contenimento e strutturazione dei comportamenti (genitori che fanno fatica a “dire no!”, a limitare e proibire la violenza di ragazzini preadolescenti) sia nell’essere modelli educativi validi (a volte, a bordo campo delle partite di calcio dei ragazzi si vedono esempi assai poco edificanti). Anche la gestione delle classi è diventato un compito impegnativo per molti insegnanti. Numeri di alunni per classe troppo elevati, spazi insufficienti sono a volte di per sé elementi favorenti ai quali si aggiungono deficit educativi, scarsa capacità di modulare attenzione e a controllare il comportamento, ridotta possibilità/capacità di giocare (e quindi di simbolizzare) e a volte una limitata preparazione a gestire dinamiche gruppali complesse. Una scuola non solo come sede delle contraddizioni sociali, faticosamente contenute gestite, ma come occasione di crescita culturale e di partecipazione democratica (secondo lo spirito di don Milani).
Ma non meno difficile è l’azione sociale dove una sostanziale tolleranza non nasce dall’accettazione e inclusione delle diversità in una società solidale quanto dal disimpegno e dall’individualismo. E’ questo il quadro incerto nel quale si muovono anche le diverse istituzioni. E se l’etica della responsabilità rimane il punto di riferimento è evidente come nella nostra società il concetto di autorità (“C’era una volta il padre”), regole, norme sono in continua evoluzione. Negli anni hanno subito marcate variazioni per cui nella comunità convivono culture molto diverse e lontane fra di loro (si pensi ad esempio al rapporto di genere uomo-donna, alla condizione degli omosessuali ecc.) e sono più volte cambiate anche le regole che riguardano ad es. l’università, l’ingresso nel mondo del lavoro o il pensionamento.
Un clima di incertezza che risente di una maggiore velocità dei fenomeni e non si concilia con le esigenze del funzionamento psichico per il quale è necessaria una certa stabilità e sicurezza. I confini generazionali sono diventati molto più incerti e sfumati e vi sono meno mete e problemi “età specifici”/ simbolici come “riti di passaggio” (anche l’esame di maturità è in crisi). Tutto è diventato più instabile: relazioni sentimentali, lavoro, scelte esistenziali.
E mentre fino agli anni 60-70 del secolo scorso il tema prevalente era ancora quello della sessualità oggi il problema prevalente è quello della realizzazione/affermazione di sé. (E questo, in termini molto generali ha favorito il passaggio da una prevalente “patologia della colpa” a quella di tipo “narcisistico”.)
Sembra mancare l’idea di un destino comune che parta da storie e memorie condivise e si proietti in futuro che riguardi tutti noi. La narrazione della storia da parte degli adulti è assai carente e di conseguenza anche la conoscenza dei giovani. Solo le tradizioni alimentari sembrano avere una qualche forma di trasmissione.
L’osservazione che la crisi abbia determinato un “furto di futuro” a danno delle giovani generazioni fa sì che le prospettive di ciascuno non abbiano un orizzonte di senso condiviso. E se questo riguarda il futuro, nell’oggi, a volte, ai giovani manca un riferimento adulto autorevole. Di questo è alla ricerca l’adolescente: qualcuno che lo accompagni, resti al suo fianco, sappia sostenere le sue spinte verso la crescita senza avere paura degli inevitabili rischi, senza bloccarsi per la paura, senza abbandonarlo o giudicarlo troppo in fretta. Anche i gruppi hanno bisogno di adulti di riferimento e, da questo punto di vista, diversi fenomeni giovanili sono espressione di un vuoto, di una solitudine e di un’esclusione reale o percepita che comporta anche un deficit di comunicazione. Una mancanza di percorsi evolutivi fa sì che nella comunità vengano a determinarsi, al proprio interno (negli interstizi, sulla rete) o ai margini (periferie), sottogruppi identitari. Identità fragili che da sempre nell’adolescenza si avvalgono di “status simbol” e traggono “rinforzo” o capacità di ribellione nell’uso di sostanze.
Esiste un maggiore disagio giovanile?
Le mete esistenziali dell’adolescenza e del giovane adulto volte a realizzare l’identità e l’autonomia della persona nel nostro contesto sociale sono diventate più incerte e difficili. Certo i dati sono allarmanti: si pensi all’abbandono scolastico che in Italia ha toccato il 17% e la disoccupazione giovanile il 42%.
Solo una comunità coinvolgente, tutelante, integrante attraverso una buona politica può affrontare questa situazione.
Ma i giovani hanno più disturbi mentali?
Credo sia aumentato il disagio e per quanto siano cresciuti gli accessi ai servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza credo che nel complesso la salute delle nuove generazioni sia buona, la gran parte dei ragazzi sta bene, è motivata, impegnata e responsabile. A questo punto è essenziale ricordare che la salute mentale non è un prodotto naturale spontaneo: richiede oltre alle componenti genetico-biologiche un insieme di relazioni genitoriali educative, in grado di assicurare presenza, affetto, nutrimento, sicurezza. E per questo sono essenziali: l’alloggio, un reddito minimo, alimentazione, presenze. E’ normale avere qualche difficoltà nella crescita, frustrazioni e sofferenze sono fisiologiche (ci sarà sempre un brutto voto, una relazione che finisce, l’amico che non invita …) e la vita riserva a tutti noi le prove molto difficili della malattia e della morte dell’altro con cui anche i giovani si confrontano. Per affrontarle sono essenziali le esperienze di supporto e riparative nei contesti di vita. A volte, per complessità e gravità, servono anche aiuti professionali specialistici.
La maggiore domanda ai servizi per la salute mentale è espressione da un lato di una maggiore attenzione alle problematiche dell’età evolutiva facilitata anche dai progressi avvenuti nelle discipline e dall’altro da una tendenza a leggere come “patologici” fenomeni complessi (disturbi della condotta ecc.) quando invece sarebbe più utile un’analisi integrata, rispettosa delle diverse componenti biologiche, psicologiche e socio-relazionali implicate nel determinarsi dei comportamenti. E se anche è diagnosticabile un disturbo mentale questo richiede non meno azione educativa ma un approccio più specifico e qualificato anche sotto il profilo pedagogico educativo.
Cosa si può fare?
Avere la consapevolezza che quello dei giovani è uno dei temi fondamentali della comunità.
Credo che i ragazzi vadano coinvolti attivamente, andando loro incontro, ascoltandoli e rendendoli responsabili affinché si sviluppi l’etica della responsabilità.
In questo quadro occorre creare “opportunità fruibili” che facilitino il protagonismo dei giovani. La carenza di opportunità nella nostra comunità ha portato alla fuga dei cervelli, ma anche a ragazzi laureati depressi perché disoccupati, traditi nelle loro aspettative ecc. e quindi non solo vanno aumentate le opportunità ma rese fruibili cioè portate là dove sono i giovani, intendendo con questo andare dove sono i ragazzi, capire i loro linguaggi, strumenti ecc. valorizzando la loro partecipazione e le attività tra pari (peer to peer). E’ un compito delle diverse istituzioni.
Creare lavoro. Nella nostra società il rapporto fra identità e lavoro è molto stretto: “siamo quel che facciamo”. Se per lavoro s’intende un’attività rivolta ad un fine (teleologica), ve ne sono altre, cultura, arte, meditazione, creatività, ricerca, religione ecc. non necessariamente rivolte ad un fine ma molto importanti per l’essere umano e per la sua identità. Ne consegue che non è solo il lavoro a formare l’identità ma questa può costituirsi anche su altro. Certamente la nostra società attribuisce netta importanza al lavoro produttivo, che dà un risultato spesso misurato con il suo valore economico o la sua visibilità/riproducibilità, magari temporanea, che poi a sua volta diventa denaro.
Una società con generatori di valori diversi da quelli del denaro e del mercato può aiutare a capire e ad apprezzare ciò che può essere non solo produttivo, utile ed efficace ma anche ciò che è buono, giusto, vero, bello, sacro?
Questo vale oltre che per l’adulto soprattutto per il bambino, la cui identità si costruisce grazie al riconoscimento che ottiene dagli altri (“identità riflessa”) e dai modelli di riferimento: genitori, insegnati, mass media. E’ questa una linea, un ambito di lavoro che interessa scuola, famiglia, società. Non a caso, il rapporto lavoro-identità è diverso nei soggetti con meno di quarant’anni rispetto a quelli più anziani.
Qui appare la rilevanza dell’attività educativa: non solo perché la crescita del bambino proietta di per sé verso il futuro ma perché la scuola è il luogo sociale della mediazione/transizione fra ciò che accade in famiglia e i valori della società (compresi i mass media). L’identità si è sempre composta di elementi esteriori (barba, capelli, vestiario ecc.) ma negli ultimi due decenni certamente questo si è accentuato e il corpo (segnato, tatuato, dimagrito ecc.) e la mente (con le sue espansioni telefonini, computer ecc.) “sono in quanto hanno” e il Sè esiste solo se ha qualcosa “in più” che diviene però essenziale, irrinunciabile, pena la perdita dell’identità, la vergogna, lo “spread”, il “default”, le “bad company” (I termini dell’economia stanno passando nell’antropologia). L’identità del ragazzo consiste nello sguardo degli altri, nel giudizio del prossimo che sostiene o meno l’autostima. E quindi che futuro per i giovani?
Colpisce la presenza di ragazzi c.d. “né, né” che non studiano e non lavorano (detti anche ragazzi NEET: No Employement Education Education e Training), soggetti che stanno in nella loro camera e scompaiono rispetto non solo alla società, alla scuola ma anche alla loro famiglia. Posto che si tratta di un fenomeno complesso e composito che va poi studiato caso per caso, nella forma più conosciuta (Hikikomori) il soggetto resta in casa ma non è totalmente isolato e ha scambi via internet, relazioni immateriali, una sorta di “second life”, di vita virtuale nei social network.
Penso occorra comprende come sia meglio educare alla cooperazione più che non alla competizione: la ricerca e l’innovazione, ma anche tante altre attività richiedono un lavoro in/di gruppo e non sapere cooperare è molto grave. Per farlo bisogna educarsi all’autocontrollo e al confronto con la diversità. Il confronto e il rapporto con la diversità derivante dalle culture, dalle condizioni di salute ecc. stimola anche la solidarietà, la strutturazione dei valori e costituisce una delle maggiori risorse della scuola e della società. Questo atteggiamento è essenziale per dare prospettive ai giovani e costruire uno scenario di senso nel quale iscrivere la propria vita futura (professionale e non).
Quindi, a volte, oltre alla perdita della speranza nel futuro si assiste alla destrutturazione del futuro, alla sua frammentazione, ad un vuoto che porta a considerare la questione solo come un fatto individuale. Questo accentua le dinamiche gruppali, già presenti in adolescenza, portando a costruzioni di gruppi identitari su base etniche o devianti.
E’ compito degli adulti creare le condizioni per una società che accoglie i singoli e i giovani, che vede il futuro come un comune destino. Quindi un procedere collettivo, di gruppo e non solo di singoli in un rapporto nuovo con il pianeta.
Parte dei giovani pone in evidenza la crisi di un modello di sviluppo, la necessità di altri valori. Non solo un modo di produrre diverso ma produrre beni differenti e in gran parte umani, relazionali, immateriali e creativi. Non a caso uno dei loro miti è Steve Jobs.
L’amore per la cultura e il paesaggio: sono queste nuove sensibilità di molti giovani ai quali da adulti abbiamo il compito di consegnare un mondo conservato nella sua bellezza, un patrimonio inestimabile. Siamo ospiti del pianeta, occorre amarlo e con esso la cultura: leggete libri ai vostri bambini, fate ascoltare musica, trasmettete amore per la conoscenza, il saper fare artigiano, la saggezza. Resta il migliore investimento. Non lasciamo sole le nuove generazioni, colmiamo il vuoto, facciamo qualcosa per i tutti i ragazzi e ragazzi sia per quelli motivati, bravissimi, capaci che richiedono sbocchi, opportunità sia per coloro che rischiano di essere emarginati e “perdenti” affinché nessuno sia escluso.
In tempi di risorse ristrette non è questa la prima risorsa da impiegare, recuperare, valorizzare?
Pietro Pellegrini, Direttore del Dipartimento assistenziale integrato salute mentale dipendeze patologiche
modificato: | mercoledì 9 luglio 2014 |
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